marina bolmini
biografia
HOME OF THE BRAVE

La natura del lavoro di Marina Bolmini mi chiama a una premessa che riguarda più direttamente la sociologia che l’arte. Vorrei partire, infatti, da quel dato caratteristico, per certi versi fondante dell’epoca in corso, che vede la creatività diffusa a permeare buona parte dell’ambiente in cui viviamo, sempre pronta a intrufolarsi nel nostro campo di percezione.
Questa piacevole invasione è il frutto di un processo agevolmente ripercorribile. Tutto ha inizio con l’innalzamento all’ennesima potenza della quantità di merce disponibile, frutto della piena maturazione dei processi produttivi industriali. Così, una volta soddisfatti i bisogni essenziali del consumatore, le aziende si sono viste costrette a inventarsi strategie di mercato volte, da una parte, a risvegliare con prodotti sempre più appetibili il desiderio di acquisto, rendendolo di fatto insaziabile; dall’altra a tenere testa a una concorrenza fitta e agguerrita.
Ben presto è stato chiaro che l’articolo vincente è molto più di un qualcosa che assolve al meglio la funzione cui è deputato. La qualifica di “merce di culto”, massimo traguardo mercantile, la conseguono i prodotti che più sanno eccitare le facoltà immaginative e simboliche del consumatore, pungolando l’apparato concettuale e percettivo, ben al di là della semplice buona funzionalità.
Perfino a uno spazzolino da denti, che voglia accalappiare il potenziale acquirente dagli scaffali ricolmi del supermercato, non è più sufficiente garantire di saper spazzolare bene. Conta anche, e soprattutto, riuscire a sollecitare i sensi e la mente con un design avveniristico, tutto curve e colori, che in qualche modo prometta che a difesa dell’igiene orale ci sarà molto più di una bacchetta di plastica: un supereroe degno di un cartone animato.
A proposito di cartoni, non parliamo poi di come il mercato abbia saputo irrompere nel tempo libero, offrendoci ogni tipo lusinga, come i videogiochi protagonisti di questa mostra. Ma moltissime altre ne potremmo aggiungere, a partire dalla sacra triade dei tempi attuali: televisione, musica e cinema.
Fatto sta che sullo spettacolo della merce non si spengono mai i riflettori. Non per niente si usa affermare che la nostra è la “società dello spettacolo”. A dire il vero, colui che per primo ha puntato su questa espressione, il francese Guy Debord, autore nel 1967 de La société du spectacle, la usava in senso ferocemente negativo: la spettacolarità merceologica era intesa come l’arma più subdola e affilata manovrata dal “Capitale” per conquistare noi tutti. Per certi versi è proprio così, pur di rimuovere l’ormai obsoleta radice marxista, che inquadrava in termini malefici ogni espressione della società dei consumi. Al giorno d’oggi, invece, possiamo tranquillamente ammettere che le cose non sono andate tanto male: proprio dal mercato sono scaturite alcune delle forme espressive più dinamiche ed evolute e, soprattutto, è stato promosso il riscatto generalizzato dell’estetica, per secoli relegata ai margini di una vita di lavoro e miseria e ora democraticamente estesa alle masse, e non più ai soli ambienti benestanti.
Purtroppo di motivi per ritenere che non viviamo ancora in un paradiso ritrovato ne potremmo enumerare a non finire, ma almeno non sembra più il caso di demonizzare l’industria. La stessa contestazione no global pare animata, almeno nelle sue componenti maggiormente avvedute, più dall’intento di impedire che il controllo di strumenti e risorse cada illegittimamente nelle mani di pochi, piuttosto che da un’irriducibile contrapposizione tra bene e male, luce e tenebre, secondo i dogmi delle vecchie ideologie.
Arrivo all’arte: come reagiscono gli artisti a una situazione in cui la creatività non è più loro esclusiva competenza? In questo interrogativo credo sia riposta una chiave importante per la comprensione dello stato attuale della ricerca. Quando l’arte era scissa dalla quotidianità, quando i più erano totalmente assorbiti dal tentativo di soddisfare le necessità vitali del nutrimento, dell’abitazione, della lotta contro la mortalità per poter solo pensare a rivendicare il diritto alla gratificazione estetica, che restava quindi privilegio dei pochi che se la potevano permettere, la creatività era affidata a professionisti rari ed eccellenti: gli artisti. Ma cosa rimane loro oggi, che ogni azienda ingaggia le sue schiere di creativi e tutti noi siamo esposti a una pioggia battente di stimoli immaginativi? Rimane loro la peculiarità di praticare un libero e disinteressato esercizio di critica, vigilanza, sperimentazione. Ci potrà anche stare l’integrazione, magari in alcuni casi la celebrazione, purché attiva e costantemente all’erta, pronta a evidenziare eventuali storture, inaugurare punti di vista, sollecitare differenti modalità percettive.
Su queste basi si può finalmente cominciare a considerare il lavoro di Marina. Essa muove da uno dei più straordinari prodotti per lo svago: i videogames. Chi condivide la sua età li conosce bene, vi ha perso le ore, da solo o con gli amici. Pochi altri strumenti di divertimento hanno saputo avvincere le nuove generazioni con una forza pari, grazie a trame trascinanti, situazioni ad alto impatto e coinvolgimento totale. E non si creda che si tratti di un’estetica scaduta, di serie B. Quello dei videogiochi è un linguaggio sofisticato e raffinatissimo: ha saputo fare tesoro delle invenzioni degli artisti, delle intense soluzioni dalle avanguardie, rendendole attraenti, comunicative e alla portata di tutti.
Marina si trova sbaragliata di fronte a tale deliziosa sapienza d’immagine. Così decide di non aggiungere altro: si limita a sciorinarci una serie di schermate trovate tali e quali, in ready-made, setacciando alla moviola alcuni dei titoli più noti. Ecco – sembra dirci – ammirate qui che meraviglia!
Ma, evidentemente, l’operazione si spinge ben oltre. Tanto per cominciare non si tratta di autentici ready-made. Marina non si limita a portare in galleria dei frames estratti dal flusso catodico, ma ci aggiunge molto del suo, rifacendoli con due tecniche sorprendenti e spiazzanti per quanto appaiono incongrue: il ricamo a mezzo punto e la modellazione in maiolica. La fuga visiva dei videogiochi, che bruciano immagini a ritmi forsennati, viene spropositatamente rallentata dalla traduzione in una manualità d’altri tempi. Dico d’altri tempi sia perché essa appartiene a un’epoca che non è più la nostra, ma semmai è quella “della nonna”; sia nel senso che la struttura temporale che ci innerva è incommensurabile rispetto a quella delle mani dell’artista. Così viene messa in forma l’impasse di chi si trova assediato da icone affascinanti, ma che non gli appartengono più e verso le quali si scopre inadeguato.
Come una moderna Penelope, vittima questa volta di un tempo sfrenatamente mobile, anziché immobile, Marina agisce in una bolla di operatività senza tempo. Ma non senza scopo, perché è proprio questo laborioso ruminare immagini, questa lenta scansione con ago e filo o con la superficie dei polpastrelli, che ci permette di attivare una nuova consapevolezza, di innescare una visione “altra” delle cose.
Da questa prima contraddizione ne scaturiscono allora molte altre, tra le quali mi limito qui a evidenziare quella espressa dal titolo che Marina ha voluto per la mostra: Home of Brave, ossia “casa – nel senso più intimo e domestico del termine, secondo il valore dell’inglese home – del coraggioso”. Siamo così stimolati a considerare il cortocircuito tra l’eroismo dell’intrepido combattente, quale il protagonista dei videogiochi, e la “homeness”, la domesticità pantofolaia di chi affronta le più terribili avventure comodamente seduto in poltrona. Del resto da sempre Marina ama fare il surf sulle dialettiche della vita, come in quell’altra seria dedicata alla riproduzione di confezioni di psicofarmaci tramite il punto croce (Quadretti tranquillanti, 1997-2000; Emma, 1999).
Infine, da un punto di vista strettamente formale, vorrei notare che i pezzi a ricamo ci conducono a una scoperta inaspettata: paradossalmente la traduzione non intacca la natura – e la bellezza – delle icone dei videogames: la logica del mosaico elettronico, generato dalla trama dei picture elements, i cosiddetti pixel, e ancor più sgranato dalla grafica digitale, trova nell’ordito una replica perfetta, dato che entrambi sono mezzi che dividono l’immagine in una serie di unità cromatiche separate e distinte, poste l’una dopo l’altra in righe ordinate.
Per concludere vale la pena di evocare un precedente illustre, il divisionista Georges Seurat, che per primo, nel penultimo decennio dell’Ottocento, sembrò intuire che le icone dell’era che stava iniziando si sarebbero sbriciolate in un pulviscolo di stimoli discontinui. E, curiosa coincidenza, proprio riflettendo su teorie che spiegavano come ottenere il migliore effetto visivo dalla tessitura

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Guido Bartorelli