giovanni manfredini

La pelle e l’anima

di Alberto Fiz

In fondo lavoro solo per me stesso,
per cercare di sapere un po’ meglio ciò che vedo.
(Alberto Giacometti)

La seconda metà degli anni Novanta è caratterizzata da una volontà quasi ossessiva di riappropriarsi del corpo inteso come elemento in continua trasformazione.
La rivoluzione cibernetica, le scoperte scientifiche, la chirurgia plastica e gli esperimenti genetici, hanno profondamente condizionato la percezione dell’io che si è andato modificando sino a trasformarsi in una sorta di ultracorpo difficilmente controllabile.
L’alieno, come aveva già suggerito il cinema di fantascienza, fa parte di noi stessi e ha aperto un varco alla nuova costruzione (o decostruzione) del corpo inteso come processo evolutivo artificiale offrendo all’uomo cibernetico la possibilità tutta virtuale di negare il proprio destino.
A ben vedere, il posthuman, già teorizzato da Jeffrey Deitich nel 1992, rappresenta l’ennesima, affascinante variazione di un lungo, antichissimo cammino fatto di riti, maschere e cerimonie tese ad allontanare lo spettro della morte.
In fondo, cambiano i mezzi ma il fine è sempre e soltanto quello di sottrarsi alla fatalità della natura. Il corpo, in quest’ottica, diventa un oggetto manipolabile, luogo della sperimentazione e dell’artificio che si distacca progressivamente dall’io prendendo una strada autonoma.
A tale prospettiva si oppone Giovanni Manfredini convinto che il fine ultimo dell’arte vada nella direzione di un processo di autocoscienza dove l’indagine estetica giunge a possedere l’individuo per ciò che egli è.
L’artista emiliano modifica il rapporto tra gli elementi ed esce dall’eterno conflitto tra natura e artificio, tra alieni e alienati, tra metafore e metastasi che caratterizza gran parte dell’indagine contemporanea. Evidentemente non li nega, ma li considera un dato acquisito all’interno di un dibattito che tende a proporre un differente approccio di carattere linguistico.
Manfredini, infatti, modifica la prospettiva iniziale e considera il corpo, il suo corpo, come soggetto assoluto dell’indagine e non più come oggetto nelle mani dell’artista Frankenstein. Il potere demiurgico scaturisce dall’esistenza della materia come corpo e non come materiale.
Ecco, dunque, che non c’è più separazione tra il corpo e l’azione creativa in base a quella relazione simbiotica a cui fa riferimento Tommaso Trini. “Neppure oggi Manfredini dipinge. Semmai lui prefigura. Senonchè oggi la sua opera può ben dirsi pittura. Una forma mutante della pittura. Una pittura simbiotica”.
E’ questo uno degli aspetti centrali della sua opera che non si pone affatto come rappresentazione, ma come luogo del divenire, dove la realtà assume un preciso significato attraverso il respiro della pelle. Il corpo di Manfredini s’imprime sulla pellicola della pittura lasciando la traccia di un passaggio inteso nella dimensione fisica e vitalistica.
Non c’è più la contemplazione, ma solo l’azione in uno scambio sinergico con la superficie che assorbe e, allo stesso tempo, emana energia.
L’artista, com’è noto, prepara la tela con una tecnica sperimentale utilizzando elementi naturali, un impasto di colla vinilica, acqua e polvere di conchiglia. Tale intruglio, degno del piccolo chimico, dopo essersi asciugato, viene “dipinto” dal fuoco e dal fumo che ricopre integralmente lo spazio disponibile sino a renderlo uniforme, pronto per assorbire l’impronta indelebile del corpo, quasi fosse il grembo materno. La tela, insomma, diventa il luogo di assorbimento dell’opera all’interno di un processo fisico di visualizzazione dove il supporto partecipa direttamente alla trasformazione creativa.
I riferimenti a Yves Klein sembrano quasi scontati, ma è bene individuare alcune differenze sostanziali rispetto alle Anthropometries del maestro francese. In primo luogo, l’uso del proprio corpo (Klein era il regista dell’operazione, concretamente attuata da modelle) che testimonia una partecipazione diretta dell’artista, transfert tra l’io rappresentato e la visione. Secondariamente, va analizzato il processo binario per cui Manfredini non si limita a lasciare un’impronta sulla tela, ma entra in sinergia con la materia creando una sorta di complicità e d’integrazione con la superficie, essa stessa elemento attivo della rappresentazione. L’artista, infine, non dà alcuna enfasi alla fase progettuale del lavoro e realizza le performance nel silenzio del suo studio dove crea i suoi calchi appoggiandosi per un istante alla tela in modo da creare un doppio smaterializzato che scaturisce dalla proiezione di se stesso.
Pelle e anima, dunque, aderiscono alla superficie in un Tentativo di esistenza (così s’intitolano le opere dell’artista) che si consuma dentro la superficie attraverso un passaggio da un’identità all’altra. E’ forse la prima volta che la pittura reagisce, che diventa essa stessa parte integrante di un processo fisico e non solamente il luogo della rappresentazione.
Il fuoco, del resto, non aggredisce la tela, non modifica gli elementi come avviene, per esempio, nel caso di Alberto Burri. Al contrario, assume un aspetto compositivo e diventa il luogo della fisicità sviluppando un effetto monocromo che può rimandare a vecchie stampe fotografiche: non c’è violenza ma un’intima armonia che consente alla materia di mostrarsi come corpo vivente predisposto ad assorbire un altro corpo vivente.
“Il mio calco avviene su una superficie che è come una specie di pelle su cui io stendo il buio, vari strati di fumo che l’anneriscono e non sono fissati dalla superficie. Due pelli si toccano e si scambiano energia, lasciando un segno, una sorte di sindone”, spiega Manfedini in un’intervista a Maura Pozzati.
In fondo, la sua arte non è altro che una sorta di rinascita in una progressiva riappropriazione dell’essere. Il corpo, infatti, è l’unica luce all’interno della superficie nera, quasi a voler rappresentare simbolicamente la grotta sotterranea o, meglio, l’oscurità della caverna. Da questa dimensione dell’inconscio viene partorito il corpo in una sorta d’iniziazione primordiale e misteriosa. D’altro canto, il corpo è l’unico spiraglio nell’ambito di una ricerca dove all’artista-creatore viene negata la possibilità di andare incontro alla luce. Manfredini, infatti, può intervenire con la fiamma sul suo lavoro, ma solo per scurire o negare, mai per scoprire o per svelare. Questo è un elemento di riflessione importante di fronte ad un’indagine che nasce dal confronto tra vita e morte, tra ghenos e thanatos, tra buio e luce in una progressiva riappropriazione del visibile che emerge dalle tenebre.
La ricerca di Manfredini nasce come reazione al sistema globalizzato nella consapevolezza che il riscatto passi attraverso l’individualità del segno-corpo negando il gioco seduttivo delle apparenze. “Il mio lavoro si modifica perché cambio io: non c’è bisogno d’inventare una posizione nuova, perché salta fuori da sola anche casualmente”, spiega l’artista che non ostenta un’operazione narcisistica e autoreferenziale, ma propone se stesso come metafora dell’arte in una presa di coscienza nei confronti del reale.
In fondo, il suo compito non è nient’altro che quello di risvegliare la sensibilità sviluppando un’indagine sul corpo vivente dove pelle e anima, ragione e sentimento, materia e forma tendono a coincidere. La sua arte (ma si potrebbe tranquillamente chiamare pittura) non contempla antinomie ma prevede una relazione con l’essere inteso come vedente e visibile, soggetto e oggetto della contemplazione. “Il soggetto”, ha scritto Gudrun Inboden “non conosce più il mondo dalla distanza, ma ne è esso stesso parte integrante per il fatto che lo tocca e da esso viene toccato”. E’, dunque, evidente che nell’opera di Manfredini la percezione non è solo un elemento che riguarda il visibile, ma assume l’aspetto di un processo organico e tattile in continuo divenire secondo una relazione fisica e psicologica che rappresenta il principio fondante della sua arte.


(1) T. Trini, Simbiote una forma di vita in Giovanni Manfredini, Fondazione Mudima, Milano, 1996, catalogo pubblicato in occasione della mostra alla Fondazione Mudima, Milano (novembre 1996-dicembre 1997), p. 5.
(2) G. Inboden, Il logos del corpo vivente in Il logos del corpo vivente a cura di G. Inboden, catalogo pubblicato in occasione della mostra al Castello di Rivoli (16 maggio-15 settembre 1996), p. 1