beatrice pasquali
IL SENTIMENTO DELLA VERTEBRA
Walter Guadagnini


“Difatti rimane da chiedersi: cosa mai può aver ‘visto’ l’uomo di Neandertal nella vertebra di una balena, per trascinarla fin dentro casa? Sarà soltanto una intuizione di carattere magico-religioso, o, tenuto conto della fondamentale e semplice organicità del pensiero prelogico (…) non sarà magica, o intuita come magica proprio l’idea centrale che rappresenta una vertebra? E cioè la strutturazione, la continuità, la variazione metrica costante, l’iterazione? Il sentimento della vertebra, della catena, del serpente, dell’intreccio, non è forse da considerarsi la fondazione prima, e ultima, del sentimento cosi detto artistico, della intuizione ritmica?”: stese quasi mezzo secolo orsono da Emilio Villa, in occasione di una delle sue geniali – e invero rarissime al tempo – riflessioni sul carattere primitivo dell’arte contemporanea, queste righe appaiono oggi come un esemplare viatico alla lettura dell’opera di Beatrice Pasquali, presentata per la prima volta in questa occasione in maniera organica. Cos’altro sono, infatti, le sculture di Pasquali se non ininterrotte riflessioni sulla metrica del corpo, sul costituirsi del corpo come motore primo dell’agire artistico e, insieme, come possibile e infinitamente esplorabile luogo iconografico?
“Una scultura, prima di essere un oggetto, è un atto”, è stato scritto, e a tale precetto sembra ispirarsi l’intera poetica di Beatrice Pasquali: l’oggetto, in sé, è parte di un susseguirsi di atti (una catena, per l’appunto) fisici, di scelte dettate sì da una ragione formale, ma al tempo stesso, e forse più, da un rapporto con il materiale primariamente fisico, capace di contenere in sé tanto la sensualità del toccare quanto la cerebralità del vedere. Primitivo è, in questo senso, l’atteggiamento di Pasquali nei confronti del fare arte, in quanto ricerca di un’originarietà espressiva radicata nel proprio rapporto sensibile con il mondo esterno, per cui ogni opera è opera prima e ultima; perché ogni immagine è legata al mondo da un sentimento di analogia, per cui la drammatica separazione tra l’oggetto dell’arte e gli atti del mondo può anche venire, se non superata, almeno momentaneamente dimenticata.
Ma sarebbe errato leggere queste opere solo come il frutto, o la continuazione, d’una linea comunque portante del corso della storia dell’arte del secolo appena trascorso – quella linea ideale, per intendersi, che collega il primo Giacometti ad Ana Mendieta passando attraverso Beuys, figure tutte centrali per la formazione di Beatrice Pasquali – poiché l’evidenza di queste immagini, e il sotteso loro pensiero, dice anche d’una necessità di elaborare questi principi all’interno di un orizzonte mentale più ampio, che tiene conto in pari grado di alcune esperienze decisive della cultura occidentale, prime tra tutte quelle della rappresentazione del corpo in chiave scientifica e quella della rappresentazione del mondo in chiave museale. “Il termine museo, riproposto intorno al 1600, stava ad indicare per lo più un luogo di raccolta ma non a caso soprattutto di oggetti naturalistici, come il Museo di Athanasius Kircher, cogliendo dunque la trasformazione dello studiolo in gabinetto scientifico, per proiettarsi, attraverso la contaminazione con i luoghi di esposizione del tempo, le gallerie, nell’attuale accezione di Museo di origine ottocentesca. Il riferimento dello studiolo al museo in termini etimologici e concettuali segna dunque l’origine di quest’ambiente nell’accezione astratta dello studium, per concretizzarsi nello studiolo prima e nel gabinetto scientifico poi. Anche la funzione di conservazione, presente fin dall’origine nell’idea di studio già negli esempi francesi, e che trasformerà questi ambienti in luoghi di memoria, si rintraccia nel museion, che nel suo originario significato di luogo sacro alle Muse, figlie di Mnemosyne, implica un consequenziale riferimento alla memoria”. E’ questo l’altro ambito, si dica pure quello colto, nel quale si muove l’artista: il dottor Tulp a fianco di Ulisse Aldrovandi, la Wunderkammer e l’Encyclopedie, tutto è nello studio dell’artista, disiecta membra e animali domestici, proiezioni ortogonali e rami di bronzo, la scienza e la meraviglia. Solo che, a differenza di Jean de Berry o di Isabella d’Este, Beatrice Pasquali costruisce da sestessa gli oggetti del proprio studiolo, crea i propri reperti, inventa il mondo per poterlo misurare prima e porre sotto teca poi: del mondo accoglie le forme, i modi d’apparizione, ma non, se non in rari casi, gli oggetti.
Pasquali non preleva dal mondo, ma costruisce il mondo, gli dà forma (e ancora, pare di poter affermare, è questa una caratteristica che contraddistingue l’attività artistica da altre attività: il privilegio accordato oggi dalla comunità artistica – o quanto meno dalla sua parte più esposta mediaticamente – al prelievo diretto dalla realtà o al suo ricalco, dovrebbe almeno far riflettere sulla inquietante perdita di identità non solo linguistica, ma più complessivamente concettuale e sociale di questa comunità; ma non paiono tempi, questi, per disturbare il manovratore…).
Ben sapendo, peraltro, che il destino di tale agire è comunque quello di costituire a sua volta un mondo separato, tanto da provvedere ella stessa a porlo sotto vetro, già predisposto per l’archiviazione e la conservazione (non è da confondersi qui, comunque, la nozione di scultura come reperto – affettivo ed esperienziale, prima di tutto -, presente nella poetica di Beatrice Pasquali, con quella di scultura come frammento, distante dalle intenzioni dell’artista anche quando le apparenze sembrano affermare il contrario: è, quella del frammento, idea di matrice eccessivamente romantica e, nell’ambito scultoreo, troppo segnata
dalla figura di Rodin, per poter esaurire le ragioni di questo lavoro).
Un mondo, a questo punto, che già possiede il proprio spazio, il proprio orizzonte di visibilità ed esperibilità. Tutte concentrate su se stesse, le opere vivono in una duplice spazialità, anch’essa già predeterminata: racchiuse nello spazio inviolabile della teca, si confrontano con questo elemento primario, da esso ricevono la misura della loro esistenza e, di conseguenza, della loro leggibilità, soprattutto quando all’interno di una stessa teca si trovano più elementi; inserite nello spazio della galleria – come dimostra per la prima volta la mostra odierna -, si confrontano tra di loro e con lo spazio esterno, si aprono allo spazio del mondo: spazi – e non più oggetti, non più figure – che generano altri spazi.
Tanto da costringere chi guarda a riflettere su un ulteriore, fondamentale aspetto di questa poetica, sul suo costante rapportarsi con l’architettura, sul suo concepire il corpo stesso come architettura, come possibile metro di misurazione e costruzione dell’esperienza dello spazio e, dunque, del mondo.
E’ insomma, quello di Beatrice Pasquali, un lavorare sui limiti, tanto del linguaggio quanto della forma, che ha il pregio straordinario, oggi, di porsi in una condizione a sua volta liminare, di confine: tra il recupero esplicito della tradizione (sottotraccia aleggia sempre, in queste opere, il gusto d’una manualità dal sapore antico, volutamente ai confini del virtuosismo) e l’altrettanto chiara volontà di staccarsene anche quando questa sia connotata di modernità; tra il desiderio di comunicazione e la coscienza che tale necessità non può implicare la rinuncia alla complessità, la svendita delle idee; tra le pratiche stesse del fare, tra disegno, pittura e scultura, ai loro bordi estremi, che implicano libertà pur nel rispetto dei differenti codici disciplinari. Tra l’evidenza della forma, insomma, e i suoi straniati modi d’apparizione: come nel caso della vertebra, ciò che conta è, infine, il sentimento dell’opera, fondazione prima di una ricerca il cui risultato è, come ripete sovente Pasquali citando l’amato Novelli, “un lungo diario per fortuna non esclusivamente mio perché non ho una misura stabile. Un ‘diario-elastico’ lo vorrei chiamare, un filo a piombo senza però il piombo in fondo”.



RICORDA LE FARFALLE, SOGNA
Giulio Mozzi


Giovanni sentiva la mancanza dei sogni. Lui era uno di quelli che si svegliano di bel mattino, dopo aver dormito proprio bene, con la testa piena di cose sognate; ma nel giro di pochi secondi, diciamo nei dodici passi che separano il letto dal bagno, dimenticano tutto. Lui era così. Sapeva di sognare – sapeva di fare sogni belli, confortanti, avventurosi – ma non era capace di ricordare nulla. Aveva messi in atto degli stratagemmi: tenere un quadernetto sul comodino; raccontare immediatamente il sogno alla persona che dormiva accanto a lui (ogni tanto, una persona dormiva accanto a lui); tenere un miniregistratore sul comodino; raccontare il sogno a sé stesso, ad alta voce, prima di sollevare la testa dal cuscino. Niente aveva funzionato. Squadernato il quadernetto, la pagina bianca gli sbiancava la mente; la persona accanto a lui dormiva, o era così poco sveglia da non ricordare nulla, dopo pochi minuti, del suo racconto; premere play+rec sul miniregistratore era come premere uno stop/eject nella sua testa; e i racconti a sé stesso, benché fatti ad alta voce, si disperdevano nell’aria viziata e tiepida della camera da letto: per non tornare più.
Giovanni, però, aveva fiducia. Sapeva che nelle favole, quando il protagonista vive un’avventura meravigliosa e poi si risveglia nel proprio letto, rendendosi conto di aver sognato, spesso c’è un oggetto che per così dire si travasa dal sogno al mondo da sveglio: il più delle volte un monile, un anello, una collanina d’oro; ma a volte un acciarino o un bastone da viaggio. E lui, a volte, aveva l’impressione che dai suoi sogni al suo mondo da sveglio, il travaso potesse compirsi. Ad esempio, si svegliava con la mano destra contratta e arrossata: come se nel sogno fosse stato un paladino, e avesse dato di spada a destra e a manca. Oppure, si svegliava con gli occhi pieni di crosticine: come se nel sogno avesse tanto pianto. A volte si era accorto, facendo la doccia, di avere misteriose ecchimosi sul corpo, o numerosi piccoli graffi sui polpacci, come se avesse dovuto combattere o se avesse camminato a lungo nella savana disseccata. Giovanni considerava questi segni sul suo corpo – del suo corpo – come le collanine e gli acciarini delle favole: oggetti travasati dal sogno al mondo da sveglio. Perciò li aveva molto cari, li amava intensamente, ne era molto contento.
Un giorno – era un giovedì – Giovanni si svegliò con in bocca la coda di un’upupa. Aprì gli occhi – dormiva sempre sul dorso, secondo il consiglio della rivista Salve, alla quale era abbonato; e molto sodo: la persona che ogni tanto dormiva accanto a lui gli diceva che dormiva come un tronco – ma prima ancora di averli aperti già aveva sentito di avere qualcosa in bocca; aprì gli occhi e vide, con la miopia del primissimo risveglio, qualcosa sul suo petto; mise a fuoco, riconobbe di avere un uccello sul petto, si rese conto che in bocca aveva le penne della coda. Aprì la bocca, si scostò. L’uccello zampettò sul suo petto, sbatté le ali e s’involò. Sparito. Come tutti i sogni. In bocca a Giovanni restò uno strano sapore, non sgradevole; il sapore delle penne, pensò; era un sapore leggermente dolciastro, come di medicina.
Quel giorno Giovanni – che era contabile presso un grossista di pezzi di ricambio per macchine per il confezionamento di prodotti alimentari – lavorò fino alle cinque trasognatissimo; sbagliò un paio di fatture, niente di grave; era luglio inoltrato, il lavoro era estivamente poco, c’era tempo per rimediare a tutto; dopo il lavoro corse in libreria, consultò qualche manuale di ornitologia, riconobbe finalmente il suo uccello per quel che era: un’upupa. Lo riconobbe dalla crestina, soprattutto. A casa, guardò nell’enciclopedia Vallardi: trovò upupa tra upton, charles barnes, filosofo inglese, e ur, antichissima città mesopotamica; gli piacque la descrizione, insieme letteraria e meticolosamente precisa: “Le u. hanno becco sottile, lungo e incurvato a sciabola, piumaggio elegante color cannella, con vistoso ciuffo erettile sul capo. Il loro volo è leggero, a scatti, e ricorda quello delle farfalle”. Nel Dizionario nomenclatore di Palmiro Premoli – ne possedeva una copia che doveva essere stata di suo nonno, tutta ingiallita ma solida – trovò invece upupa tra uovo e uragano; lesse: “Uccello tenuirostre, grosso come una tortora, con penne sul capo erigibili come una cresta”; scoprì che il suo verso si dice urlare o chiurlare – sempre con la u, comunque –; e tra i vari nomi popolari dell’upupa, “augello dei sepolcri” fu quello che gli piacque meno; quello che gli piacque di più, “galletto di maggio”.
Quella notte, Giovanni sognò molto. Sognò sé stesso. Si vide come dall’esterno – guardava sé stesso come se sé stesso fosse stato un altro, come succede appunto nei sogni. Vide sé stesso tre volte: in una stanza bianca, senza finestre e senza porte, c’era sé stesso tre volte. In piedi, immobile, gli occhi chiusi – non come uno che li tiene chiusi apposta, ma come uno che dorme; sia pure in piedi –; nudo, tutta la pelle scoperta, senza peli né capelli; la testa leggermente all’indietro, la bocca chiusa senza sforzo. Giovanni vedeva sé stesso di fronte, di fronte a sé; dal lato sinistro, alla sua sinistra; dalla parte della nuca, alle sue spalle. “Bene”, pensò nel sogno: “Ora mi vedo tutto”. Desiderò in quel momento, nel sogno, di sbucciare il suo corpo: guardarci dentro, conoscerne le parti, distinguere tessuti e vasi. Si svegliò. Brancolò fino al bagno. Orinò. Dimenticò. Era ancora notte fonda. Non gli succedeva mai, di svegliarsi a notte fonda per orinare. Tornò al letto, si riaddormentò. Sognò ancora sé stesso, ancora triplicato. Stava in fila indiana, questa volta: sé stesso, sé stesso, sé stesso. Vide, allora, che c’erano piccole differenze tra un sé stesso e l’altro. “Ma allora non mi so”, pensò nel sogno. Allora vide che i sé stesso erano quattro: il primo della fila, però, era una specie di telaio; una cosa fatta di filo di ferro; come certi porta-abiti che aveva visti nelle sartorie, pensò nel sogno; sembrava una bolla, una rete che aveva la sua forma e sulla quale poteva essere tesa, eventualmente, la pelle. Giovanni vide che ciascuno dei sé stesso che aveva visti per primi corrispondeva esattamente al sé stesso di filo di ferro che aveva visto dopo; eppure c’era qualche piccola differenza. Toccò sé stesso, uno dei tre; gli sembrò morbido, come fatto di una materia plasmabile. Ebbe un’emozione fortissima – non proprio paura, ma anche un po’ di paura – e si svegliò. In bocca aveva un tubicino di gomma che finiva in una fiala di vetro.
Nella fiala c’era un vapore bianco. Giovanni respirò: il tubicino, la fiala e il vapore rientrarono in lui. Dimenticò. Andò al bagno, orinò, fece la doccia, si guardò allo specchio, sentì che era sano e lieto. Trovò che la sua pelle era molto liscia e gradevole. Si sbarbò con cura.
Al lavoro, quel giorno, fece tutto giusto. Alle cinque e mezza era in piazza grande, seduto a un tavolino. Aspettò le sette facendo niente, leggendo il giornale, guardando la gente passare. Consumò un caffè, un bicchier d’acqua. Gli piaceva guardare la gente passare. Andò al bagno, tornò al tavolino. Della gente che passava, guardava il modo di camminare più che la persona. Riconobbe qualcuno, salutò; scambiò qualche parola. Gli piacevano le persone elastiche. Alle sette arrivò la donna che avrebbe dormito accanto a lui quella notte. Presero un aperitivo leggero. Andarono a cena in un ristorante cinese con giardino. Verso le nove si alzò un venticello fresco. I camerieri srotolarono il tendone – ci misero cinque minuti buoni; la manovella cigolava; il tendone era a righe bianche e rosse – appena in tempo, prima che piovesse. Giovanni e la donna andarono a casa di Giovanni dopo la pioggia, verso le dieci e un quarto. Il fresco era diventato quasi freddo. Giovanni aveva convinta la donna a prendere un alcolico, la grappa di riso, per rassicurare la digestione. A casa di Giovanni la donna andò in bagno per prima; ci restò a lungo, come suo solito. Giovanni fece una doccia veloce; quando entrò in camera, lui era nudo sotto l’asciugamano avvolto, e la donna era nuda sotto il lenzuolo.
Quando aprì gli occhi – era sabato, non lavoravano, era un po’ più tardi del solito – Giovanni aveva la testa piegata di lato; vide per prima cosa la donna che non era addormentata ma sveglia, non era stesa ma mezza seduta. Giovanni guardò la donna, vide lo sguardo della donna rivolto non al suo viso ma al suo petto, sentì come un taptap sul petto, girò la testa, guardò. Sul suo petto trottava un cavalluccio di legno, agile, leggero, non più grande di una mano aperta: correva di qua e di là, faceva dei piccoli salti. La donna cercò di afferrarlo – con delicatezza, come si farebbe per un gattino neonato – ma il cavalluccio le sfuggì, balzò sul viso di Giovanni, sparì. Giovanni aprì gli occhi. La donna dormiva accanto a lui, appoggiata sul fianco destro, un po’ rannicchiata, dandogli le spalle. Il lenzuolo era arrotolato, copriva loro a malapena le ginocchia. Dalla finestra – chiusi gli scuri ma non il vetro – filtrava una luce molto gialla. Giovanni amò la curva dell’anca della donna.. La osservò. La donna era sottile ed elastica, non magra né abbondante. Giovanni guardò le regioni del suo corpo. La nuca, indifesa dai capelli corti nerissimi. Le scapole. La colonna vertebrale, come un ascensore orizzontale. La spartizione delle natiche. L’articolazione del ginocchio.
Giovanni ricordò i Viaggi di Gulliver. Per confezionare un vestito a Gulliver, i lillipuziani gli presero solo la misura della circonferenza – alla radice – del pollice. Perché tre volte quella misura è la misura del polso, tre volte quella del polso è la misura del collo, tre volte la misura del collo è quella del petto. Forse non era sempre tre volte. La donna si mosse, si appoggiò sulla schiena. Giovanni la osservò. La bocca socchiusa – dalla quale, pensò Giovanni, sarebbe potuta uscire da un momento all’altro una farfalla. La gola palpitante. Le spalle. I monticelli. La pancia, come un gorgo d’acqua – ma lento, lento – sprofondante nell’ombelico. L’inguine, con il ciuffo nero. Le gambe, che da lì si allontanavano. La donna si svegliò.
Ho sognato che eravamo due alberi, disse la donna mentre facevano colazione (caffè, latte, fette di pane, burro, marmellata di prugne, succo d’arancia). Io non mi ricordo i sogni, disse Giovanni. Io sì, disse la donna. Mi piace ricordarli, fa bene. Dicono che ricordare i sogni è segno di equilibrio, disse Giovanni. L’hai letto su Salve?, scherzò la donna. Ma no, disse Giovanni: e com’era, essere alberi? Non so, disse la donna masticando. Non eravamo proprio alberi. Ah, disse Giovanni. Sì, diciamo che… Io mi sentivo la testa, e le braccia, ma poi la testa e le braccia erano come piantati su una radice. Eri piantata in terra? Ma dài… era una cosa abbastanza bella, perché dentro questa specie di radice scorrevano i liquidi, i fluidi, fino alla testa, e dalla testa alla terra… In somma, eri una specie di carota. Scemo! Eri così anche tu, sai. Me l’immagino. No, non ti immagini: non era una radice come una carota, era una cosa ramificata, tutte diramazioni che si districavano, uscendo dalla testa, o dalla pancia, forse dalla pancia; e colorate, rosse, verdi; lucide, come fatte di plastica animata – Di plastica animata? Ma sì, i fili di plastica, quelli con il filo di ferro dentro, l’anima di ferro… Ma si chiama così? Plastica animata? In somma, non mi stai a sentire, non mi credi…
Quando, più tardi, fecero l’amore – la finestra aperta, la stanza rinfrescata dal leggero vento –, Giovanni rilasciò il suo seme dentro la donna; e immaginò, nella spossatezza che seguì all’amore, che il suo seme risalisse il corpo della donna, attraverso vasi e condotti, ramificati, di colori vivaci; immaginò il suo seme viaggiante – liquido e colloso, traslucido – travasarsi dai condotti agli organi – vide organi a forma di fagiolo, di sacco, di spugna, di vescica; rossastri, biancastri – incanalarsi nella cavità interna della spina dorsale, giungere fino al cervello e al cervelletto. Immaginò, Giovanni, di essere il suo seme: e di attraversare nel viaggio regioni notturne ed anguste, regioni rutilanti di colori e luce, condotti dalle pareti lisce, corridoi dalle cui pareti sporgevano villi gommosi, o dal cui soffitto pendevano veli o filamenti. Trapassò, Giovanni, nel dormiveglia, al ricordo delle visite – emozionanti, terrorizzanti, magnifiche – alla Casa delle Streghe: alle giostre. Lui camminava, bambino, e piccole mani di neonati lo toccavano nei polpacci, ragnatele gli bagnavano il viso, improvvisi movimenti del pavimento o delle pareti lo squilibravano, rumori d’acqua venivano dall’alto o dal basso. Giovanni si svegliò. La donna accanto a lui non c’era più. Nel vuoto del letto c’era un batuffolo, due piume color cannella, portato dal leggero vento. Il rumore della doccia dal bagno.
Quando la donna, avvolta nell’asciugamano, entrò nella camera da letto, Giovanni le si avvicinò. La abbracciò. Sentì l’odore di sapone di Marsiglia, l’odore della pelle. Le sciolse l’asciugamano, lasciando che cadesse. Appoggiò il suo corpo sul corpo della donna, la fronte sulla fronte della donna. In quel momento ricordò tutti i sogni della sua vita, e fu felice. La donna, ridiventata uccello, rizzò il ciuffo e volò via per la finestra aperta.