Carolina Antich e Chiara Bertola:
Quattro dialoghi

 Primo. Non spegnete la luce

 

Carolina: In questo quadro si vedono solo bambine, alcune ballano, altre stanno sedute in posizioni eleganti, attorniate di fiori delicati. Prevale il rosa dello sfondo e i loro vestiti bianchi. Un modo delicato di stare nel mondo…

Chiara: …che mi riporta subito alla fiaba, a riconoscere un tempo e uno spazio che, pur arrivando da lontano, ci appartiene così tanto da lasciarci coinvolgere. Certo il tempo dell’infanzia, quello del c’era una volta. Le tue bambine, in questo quadro, lo riecheggiano e subito tutto ritorna e si mette in circolo dentro un altro tempo, attivando qualcosa che sappiamo riconoscere immediatamente e che stavamo cercando.

La forza del tuo quadro è proprio nel ricordarci che le fiabe sono più vicine a noi e più importanti di quanto non pensiamo. E’ come se tu volessi dire: diamo più spazio e tempo alla fiaba, riabilitiamo la fantasia, che nella nostra società è stata buttata fuori dalla conoscenza “alta” dell’uomo come rudimento troppo acritico e infantile. La fantasia, in realtà, stabilisce il rapporto tra gli oggetti origina, per forza di cose, ogni giudizio. Se ci pensi, usciti dal breve periodo dell’infanzia, la fantasia si allontana, lascia il suo posto al rigido controllo razionale. Oggi dov’è il posto per immaginarsi il mondo? Tutto è già noto e schedato, non si è più capaci di immaginare un oggetto al di fuori della sua presenza.

Carolina: Il bambino che prodigiosamente si crea un’avventura di attore, uomo, soldato, equilibrista. Si tratta di avvenimenti banali che rappresentano però l’immaginazione sulla realtà. E’ il momento della pittura sulla vita. Il mondo diventa colori, forme, soggetti.

Chiedo ai bambini di essere i miei collaboratori. Vicino a loro vengo proiettata verso il loro modo di guardare. E questo m’interessa.

Chiara: Ad ogni uomo corrisponde un archetipo fiabesco. E’ vero, e questa cosa mi sembra così giusta che si nota immediatamente se giochiamo alle somiglianze tra uomini e personaggi delle fiabe. La bambina schizzinosa sembra avere il suo modello nella regina del pisello, troppo delicata e viziata per accorgersi di un pisello sotto una pila infinita di materassi. Oppure, la bambina coraggiosa e intraprendente, che attraversa “la selva della città” per andare a trovare la nonna, come Capuccetto Rosso. “Il principe ranocchio, uno snob incorreggibile, guarda di sotto in su, con occhi bramosi la principessa, e non può fare a meno di sperare che essa lo liberi dall’incantesimo (1)”. Insomma le fiabe la dicono lunga e sembrano capaci di portarci alla vera conoscenza.

 

Secondo. Una guerra fantastica

 

Carolina: Questo quadro ritrae un gruppo di bambini che giocano alla guerra. E’ un combattimento tra bambini con armi giocattolo, le armi sono colorate; due di loro stanno per incontrarsi. Tutto nasce da un libro di cui credo di averti già parlato: Sabotaggio d’amore di Natalie Nothomb, che tratta di temi eterni come l’amore, l’amicizia, l’odio e la guerra e poi un altro libro I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnar.

La mia idea era quella di relazionare l’esperienza dei bambini con l’attualità piena di oggi. Il combattere, per esempio, non credo sia anacronistico rispetto al nostro tempo. La realtà significa la geografia, la biologia, il telegiornale, le razze, i soldati, le religioni, le bombe, le catastrofi, i terroristi… che cosa sono queste cose per i bambini? E così, che arriva un momento in cui bisogna inventarsi un gioco, ed ecco “la guerra fantastica” (questo potrebbe essere il titolo del mio quadro), in un paesaggio desolato, desertico, con armi colorate…

Chiara: I tuoi bambini giocano una guerra colorata, è vero, ma è inevitabile non pensare che purtroppo, i bambini nella realtà ‘giocano’ anche alla guerra vera. I bambini nel nostro mondo “civile”, in realtà prendono in mano delle armi vere e muoiono anche loro. La guerra non risparmia i bambini ma forse, loro aiuteranno noi. Tu, Carolina, ne sei convinta, tanto da chiedere alla creatività dei bambini una soluzione e raccontarla poi sulla tela: la guerra sarebbe meglio farla con delle pistole giocattolo colorate… La guerra è sempre esistita e molto probabilmente oggi ne sappiamo di più, solo perché tecnologicamente è permesso arrivare più lontano, anche se molto parzialmente, dentro realtà prima sconosciute: quante volte è dato pensare che la guerra è un gioco tra poteri politici, economici e religiosi?

La Storia dell’arte però, forse per pudore, non ha mai dipinto bambini mentre impugnano armi, sia giocattolo che vere. Dobbiamo arrivare fino al secolo scorso per avere invece una lunga lista o, comunque, molte immagini di bambini fotografati  o ritratti con armi, metafore del nostro tempo violento e crudele.

Il tuo quadro mi ha fatto ricordare la serie degli inquietanti acquerelli di Henry Darger, nella mostra The disasters of the War, nella quale le sue opere erano esposte insieme alle stampe di Goya e alle fotografie dei Chapman. Gli acquerelli di Darger mi avevano colpito più di tutti gli altri lavori, e chissà, perché i protagonisti erano bambini e bambine. L’artista racconta, con disegni barocchi e coloratissimi, le violentissime vicende della guerra tra le cattoliche Vivian Girls del “regno dell’irrealtà” e altri personaggi surreali del fanatismo religioso. L‘opera di Darger, è interessante perché illumina su come la guerra dovrebbe esistere nella psiche collettiva, e cioè dove gli innocenti, sono innocenti e i cattivi, sono orribilmente ma inequivocabilmente cattivi. Quello che attira nella sua fantasmagorica messa in scena di bambini guerrieri è il carattere naif, unito al fascino dark e grottesco. In questo caso, come forse nel tuo, i bambini entrano in guerra ancora per combattere una guerra irreale e metaforica. Un altro artista che ha utilizzato armi giocattolo per costruire una grande installazione “contro la guerra” è stato Chris Burden. In quest’opera, l’interpretazione è almeno duplice: quello che si vorrebbe e quello che invece è. Una guerra che sarebbe preferibile combattere con i ‘giocattoli’ e, insieme, la denuncia di come, sempre di più nella storia moderna, la guerra sia diventata un ‘gioco’ di potenti.

L’arte, in questo senso, ha sempre continuato a ragionare e a denunciare questa violenza. L’artista, in fondo, è colui che non ha paura a mettere in scena le incertezze che l'essere umano prova rispetto all'esistenza, al dichiararsi, al gesto, all'amore e a qualsiasi sentimento...e tanto meno, di mettere in evidenza lo stato di precarietà che oggi avvertiamo, la distruzione improvvisa che da un momento all’altro può colpirci.

I tuoi bambini, inventandosi il loro gioco alla guerra con pistole colorate, sanno che oggi è importante saper esitare, fermarsi  sul confine dove la realtà può rimanere sospesa e non risolta, non ancora del tutto svelata nel suo orrore o nella sua bellezza.

 

 

Terzo dialogo. Le ombre cinesi

 

Carolina: Qui ci sono le ombre cinesi. Sono bambini che, con le mani, cercano di creare delle ombre, alcune di paura (come il diavolo) e altre di animali. All’inizio avevo pensato di proiettarle sul muro, in continuazione. Poi, ho pensato a dei quadri giganti solo con l’immagine dell’ombra dipinta. Alla fine si sono trasformate nell’immagine di bambini che cercano di creare queste forme con le mani. Credo di aver incontrato la soluzione più felice.

Chiara: Lo spazio dei quadri che presenti è ora più rarefatto e astratto. Addirittura dipingi delle ombre. Cercando di immaginare come potrà essere la mostra che presenterai a Verona, mi viene in mente quello che scriveva Julio Cortàzar a proposito del fantastico: "…C'è un'ora in cui si desidera essere se stessi e l'inaspettato, se stessi e il momento in cui la porta, che prima e dopo dà sull'ingresso, si socchiude lentamente per lasciarci vedere il prato dove nitrisce l'unicorno."(2).

Mi piace soprattutto l’inizio di questo brano, quando dice: “C’è un’ora in cui…”, l’ora in cui si riesce a vedere oltre, l’ora in cui arrivano i sogni. Quell’ora dell’atmosfera rarefatta di questo quadro, dove i gesti dei bambini si proiettano sul muro e le ombre cinesi restituiscono le sagome di strani animali e figure mostruose…portandoci lontano...dove non facciamo fatica a sentire, su quel muro, “il nitrito di un Unicorno”. Qui il gesto fatto dal bambino è appena riconoscibile perché minimo, lo percepiamo solo attraverso l’ombra proiettata sul muro, il colore è quasi assente, ancora un togliere per arrivare a quello che rimane: un silenzio forte e denso come l’ombra che vediamo.

Carolina: C’è una parte del reale che m’interessa, anche se è attraverso la memoria che trovo quella dimensione che cerco, eminentemente letteraria…come sguardo e non come specchio del mondo. Qualcosa che sia tra il nascosto e il dichiarato, tra memoria personale e memoria pittorica, tra personale e collettivo. Bastano poche cose: colori delicati, superfici diluite, chiarezza e semplicità. L’economizzare mi sembra una chiave per riuscire ad andare oltre.

Chiara: L'attività dell'artista è saper trovare un altro modo di consumare la realtà attraverso i propri segni, e di riabilitare qualcosa all'interno dell'ordine precostituito. Borges scriveva: “La realtà non necessita di nessun'altra realtà per significarsi (3)”, si apre soltanto una finestra attraverso la quale riusciamo a vedere qualcosa d'altro.

Attraverso dei gesti molto semplici i tuoi bambini riportano là da dove eravamo venuti e ridanno memoria ad una conoscenza atrofizzata. M’interessa anche questo andare verso una libertà necessaria alla vitalità dell’uomo. Un modo in cui l’essere tenta di riprendere in mano se stesso nella dispersione e nell'alta velocità della rigida esistenza contemporanea

 

 

Quarto. Non-ti-scordar-di-me

 

Chiara: Attorno alle figure dei bambini si allarga uno spazio vuoto, o meglio: le figure sembrano emergere e galleggiare in uno spazio bianco, isolate da tutto ciò che si trova intorno. Una nicchia privilegiata e protetta dal resto della realtà. Il ritorno all'infanzia mi sembra uno dei  temi fondamentali nel tuo lavoro. In effetti, l'infanzia ha una particolare modalità di elaborazione del reale: lo mitizza. Il bambino guarda le cose e le trasfigura, le intesse di significati, le avvolge d’immagini; e tali immagini, tali "sensi" rimangono nella memoria come una sorta di mitologia personale...come il senso riposto delle cose che si vivranno. Questo, mi sembra sia il territorio evocato dal tuo lavoro. Una poesia messa in immagine: fa emergere quei miti che stanno al di là della superficie banale delle cose, e li fa sconfinare in significati ulteriori in quanto hanno radici profonde, antiche.

Descrivi con realismo i gesti e le pose dei piccoli protagonisti, mentre il tuo linguaggio pittorico è profondamente simbolico e capace di trasportare in un territorio archetipico.

Carolina: In Non-ti-scordar-di-me ho dipinto il volto di una bimba con questi fiori tenuti sulla testa come fermaglio. E’ un’immagine vista attraverso il caleidoscopio, che si moltiplica formando un’immagine circolare della stessa. Mi affascinava l’idea che il movimento del susseguirsi dell’immagine, faceva ritornare indietro nella memoria. A loro, chiedo di farmi ricordare come si distorce un’immagine, e come riproporla con colori e forme.

Chiara: …sono immagini che si mettono in moto, camminano nella memoria di chi le incontra e fanno ritornare al tempo dell’infanzia. Penso che quelle mitiche, universali, che appartengono a tutti, siano radicate nell'infanzia. Nell'infanzia elabori un senso che rimane unico, perché in quel momento si ha uno sguardo ingenuo, puro e penetrante. Ritornarci è sempre un’esperienza nostalgica, che evoca la perdita. Nell’infanzia si vivono momenti di verità irrimediabilmente perduti, e ogni volta che vi si ritorna, si rivive e ricerca quel senso di perdita.

Carolina: Il fare stesso del dipingere mi riconduce all’infanzia e questo legame lo sento molto forte; ti lascia dipingere la vita come Epopea: fatti gloriosi. I bambini che dipingo vorrei che avessero nello sguardo il rapporto con il mondo.

Chiara: Le tue immagini mi portano molto spesso su quel confine in cui la visionarietà si mescola alla realtà quotidiana. Isoli certi gesti, la maggior parte sono infantili, i più cari e familiari, li isoli e li enfatizzi dipingendoli in un’atmosfera rarefatta e quasi astratta. Li ridisegni e li fai apparire fuori dal tempo della storia. Questo perché sei sempre più affascinata da quello che sta dietro il quotidiano, e da ciò che inaspettatamente riesce ad apparire forzando i confini dell'esistenza.

Carolina: Un miraggio, ma non un distacco definitivo. Una ri-creazione, perché penso sia questione di crearsi di nuovo. Ogni emozione tende a rivelarsi, sul volto, attraverso i gesti, la voce, la postura. Mi affascina l’universalità dei gesti. Il rossore, per esempio, come espressione caratteristica dell’essere umano; che appare nel momento più imprevisto e indesiderato. Gonfiare un palloncino che sparisce nel cielo. Tirar fuori la lingua, provare a suonare una melodia, stupirsi; sono storie minime in un tempo molto concentrato. Momentum. Nel filmino Bambino prodigio, un bambino compone, con movimenti impercettibili, la musica che sta suonando al flauto. Si ferma al ritmo di una canzone, e saluta. In un’altra animazione c’è semplicemente un bambino che fa le linguacce. Mi piaceva l’idea di animare una ‘boccaccia’.

Chiara: I giochi dei tuoi bambini, le loro boccacce, gli sguardi curiosi o sbalorditi, le liti, le loro piccole vanità, fanno fare a ognuno viaggi straordinari attraverso i ricordi. E’ sufficiente un gesto minimo accennato sulla superficie del quadro, per aprire e dar corso a sensazioni, a lasciare libere emozioni. Sembra sempre che quello che non si vede abbia, alla fine, un posto fondamentale e, nello stesso tempo sia in grado di ribaltare prospettive, accogliere l’inaspettato.

Carolina: …basta un gesto minimo per relazionarsi con il mondo.

 

Note

1. T. W. Adorno, Minima moralia, Torino 1994, p. 95

2. J. Cortazar, in Prologo ai Racconti  di E. A. Poe, Madrid 1974, p. 15

3. J.L. Borges, Finzioni, 1989, p. 23.