METTERSI NELL’OMBRA
Chiara Bertola
Dopo la mostra alla
Fondazione Querini Stampalia di Venezia presentata nel 1999 nell’area
scarpiana, Giuseppe Caccavale, in occasione della sua personale alla galleria
Francesco Girondini, torna a confrontarsi con il grande architetto veneziano,
presentando nella sala delle sculture del Museo di Castelvecchio, a Verona, il
suo ultimo lavoro. La sala delle sculture è una lunga e ampia galleria, dove
sono raccolte le figure marmoree della scultura medievale, ritmate, evidenziate
e protette dall’intelligente allestimento di Carlo Scarpa. Forse,
inconsapevolmente, più di un’affinità unisce questo artista con l’architetto:
una simile attenzione e dedizione al lavoro, la conoscenza e l’utilizzo di
materiali autoctoni, la semplicità delle soluzioni, il confronto costante con
il lavoro degli artigiani...
Entrando nello spazio delle sculture si rischia di non
incontrare il lavoro di Giuseppe Caccavale, pensato appositamente per questa
sala. Lungo l’infilata delle sculture, leggermente indietreggiata rispetto al
percorso centrale del pubblico e sapientemente collocata tra gli sguardi
incrociati di due statue, si nota la presenza di una grande cassa di legno
scoperchiata. L’opera volge le spalle al pubblico, offrendosi allo sguardo con
quello che normalmente è nascosto dietro e non si vede. Questo è il “Pozzo in
via delle pietre”, un parallelepipedo costruito assemblando quattro forti
grigliati di legno chiaro, necessari per reggere gli strati dell’eraclit e
delle malte colorate del fondo, su cui l’artista è intervenuto incidendo dei
graffiti.
In questo modo, l’artista invita il pubblico a guardare
altrimenti, a fare i conti anche con altre cose: con quel lavoro che non si
vede ma che costruisce l’opera. Non
solo questo. L’artista ci chiede quasi un rapporto fisico con questa scultura,
ci chiede di attraversarne il corpo materiale, passare con lo sguardo tutte le
fasi di lavorazione, ripercorrendone, così, il tempo vissuto del lavoro. Vuole
che si vedano gli strati dell’arriccio fatto con la sabbia bianca dell’Adige, mischiata
con la calce e il pigmento blu cobalto e il verde brentonico, quello trovato
nella città estense. Chiede attenzione dunque fin dall’inizio, alle prime fasi
di costruzione dell’opera, perché il lavoro comincia lì e ogni passaggio è
importante per capirne il valore. Sono
strati di valori qualitativi che concorrono, alla fine, a raggiungere il
risultato impeccabile dell’opera.
“…Si dice civilmente che una sedia impagliata deve essere
impagliata bene sopra e sotto” mi ricorda Giuseppe mentre chiacchieriamo
intorno aquesta scultura e, capisco, che per il suo lavoro quello che non si
vede ha lo stesso valore di quello che si vede: “parto dal lavoro, altrimenti
come faccio a farti vedere quello che non si vede”. Vale a dire che il lavoro
preparatorio fatto con il muratore, il carpentiere e il falegname è lì,
visibile in tutta la fatica di ore e di controllo, e vive sullo stesso piano
dell’artista.
L’altro lavoro, quello più propriamente dell’artista, lo
vediamo dopo, soltanto se incuriositi da quella struttura di legno grezzo,
mentre ci affacciamo sull’apertura della cassa: è a quel punto che riusciamo a
scorgere i disegni incisi dentro, sui quattro lati. Come uno scrigno, la cassa custodisce e protegge le sue gioie, le
immagini: due mani congiunte, la figura di un bambino che disegna su un foglio
blu come il mare, un uccello che coglie un frutto su di un ramo, un’altra
gabbia – mise en abîme - con un
uccellino blu. Avviene qualcosa che ha a che fare con il prodigioso, in
quell’affacciarsi e scoprire le immagini nascoste e protette lì dentro.
Qualcosa che ci coglie di sorpresa, riempiendoci gli occhi e sorprendendoci il
cuore. Si capisce che l’artista ha premeditatamente scelto di mettere la sua
opera nell’ombra per sottrarla ad uno sguardo veloce e distratto, ben sapendo
che l’ombra è una riserva a cui tutto ciò che sta in piena luce attinge
costantemente. Per vedere ci vuole concentrazione e attenzione, e del vedere
bisogna fare esperienza. Giuseppe Caccavale crede in una fruizione e un
godimento diverso dell’arte: con questo lavoro ci ricorda che tanto più diurno
e banalizzante è l’approccio all’esperienza artistica, tanto più si ritrae e si
protegge nell’ombra, la vera ed essenziale esperienza dell’arte.
Lasciamo quest’opera sotto lo sguardo delle due madonne-statue, e andiamo nello spazio della galleria Francesco Girondini, dove l’artista ha presentato gli ultimi disegni su carta e su vetro. Quattro disegni bianchi su vetro blu sabbiato fanno di nuovo riflettere su quanto detto prima: se non ci concediamo tempo e attenzione, anche questi disegni non si riescono a vedere, non si rivelano. L’occhio deve dare tempo affinché dalla profondità del blu magnetico del fondo possa emergere la figura disegnata. Uno sguardo che annoti e ripercorra i micro-movimenti della mano che con il pastello ha definito dettagli, linee e differenze tra cosa e cosa, tra oggetto e fondo. I contorni delle figure e delle cose disegnate sono netti e precisissimi: una sedia su cui sono appoggiati gli strumenti del disegno, una statuetta arcaica, una ciotola, ancora un ramo con l’uccellino che becca. Appaiono e sembrano immersi in quella luce tarda che congiunge il giorno con la notte; quel momento di passaggio in cui le cose, così nette e incise nell’aria, si rivelano con una verità diversa da sembrare ancora più reali. Sono ancora reali ma progressivamente stanno per scivolare dentro il buio della notte e il sogno.